INFO@NEWITALIANBLOOD.COM©2000-12
PASSWORD REQUEST ---- LOG IN YOUR HOME
 
 
nib.com architecture texts - Critic
 
 
lucia mariani  lucia.mariani@tiscali.it
  03.10.05
UN PERCORSO NELLA VIRTUALITà
INTRODUZIONE
Il testo che segue è costituito dalla seconda parte della tesi con la quale mi sono laureata nel luglio scorso in Conservazione dei Beni Culturali presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell Università degli Studi di Perugia.
Il mio lavoro, come il titolo Arte e Rete: Net.art/art on the net
descrive, è nato dalla volontà di tentare di operare una certa sistematizzazione dell immensa mole di dati ed informazioni che si presentano agli occhi di chiunque cerchi di saperne di più sul connubio tra arte e internet.
In questa sede pubblico solo la parte riguardante l art on the net
perché è quella che maggiormente attiene alle tematiche di questo sito, seguendo un percorso che analizza la problematica del museo virtuale partendo da esperienze bidimensionali e grafiche per arrivare alle sperimentazioni della realtà aumentata ed immersiva.
Rimando, però, chiunque voglia leggere la totalità del mio lavoro a questo link:
www.japperu.com/lucia/TesiMariani.pdf


1
Museo virtuale: una molteplicità di approcci

La funzione che un museo tradizionale è chiamato a svolgere consiste in un complesso di atti che hanno come fine ultimo la fruizione in termini ottimali dell’opera d’arte da parte del pubblico, in quanto l’opera stessa trae la propria significatività dal fatto di essere vista. Altri compiti del museo moderno, nato nell’800, consistono nel conservare il patrimonio artistico da ogni deterioramento, preservarne l’autenticità, provvedere ai restauri conservativi, istituire un’attività di archivio e consultazione delle opere esistenti. Questa nozione di museo ha subito e subisce continuamente delle evoluzioni a seguito dello sviluppo di tecnologie che permettono una diversa concezione di musealità e un diverso approccio alla fruizione delle opere; inoltre l’esistenza di nuove tipologie artistiche legate sempre più strettamente al mondo del digitale e della Rete, crea una moltiplicazione delle problematiche (e delle opportunità) connesse alla conservazione e alla gestione.
Infatti la nozione di “museo virtuale” è ricca di sfumature semantiche che si possono sinteticamente dividere in due tipi di approcci:
a) museo virtuale “complementare”: cioè tutta quella serie di utilizzi delle nuove tecnologie (digitalizzazione delle immagini, siti internet,…) viste, però, in maniera complementare, accessoria e funzionale rispetto ad una concreta realtà museale e artistica;
b) museo virtuale per arte digitale: cioè tutti quei tentativi di creare un approccio realmente diverso al binomio virtualità/musealità, in un’ottica che considera il digitale e la Rete non in funzione subordinata, ma come mezzo sia di produzione che di fruizione dell’arte.

1.1 Museo virtuale “complementare”

Rientrano in questa categoria una numerosa serie di esperienze museali:

a) postazioni multimediali all’interno di musei “reali” : infatti ormai molti musei possiedono, all’interno dei propri percorsi, computer che forniscono informazioni sulle opere esposte, aiutando la contestualizzazione e la comprensione degli artisti e dei loro relativi periodi storici. In questo caso è necessario costituire una banca dati con le immagini digitali delle opere presenti, acquisite secondo una compressione che le renda facilmente gestibili nelle dimensioni, ma con una risoluzione sufficientemente alta da assicurare una adeguata fruizione dell’opera stessa. Utilizzando poi una connessione internet è possibile anche creare i cosiddetti musei impossibili, che permettano cioè di realizzare virtualmente delle ricomposizioni di un particolare patrimonio artistico-storico disperso in più musei o sedi ( ad es. la fruizione contemporanea di tutte le opere di un determinato artista o di un’epoca specifica). Un esempio di “mostra impossibile” è stato offerto da un progetto realizzato dalla Rai in collaborazione con la Regione Campania, progetto che ha previsto la mostra itinerante di immagini digitalizzate di un cospicuo numero di opere di Caravaggio. Infatti circa una cinquantina di dipinti sono stati digitalizzati utilizzando tecnologie sofisticatissime che hanno permesso un’altissima definizione dei dettagli, una corretta tonalità dei colori ed un rispetto rigoroso delle dimensioni originali. I capolavori sono stati fotografati e scansionati nei minimi particolari. Ciò ha poi permesso una stampa laser in formato 1:1 completamente digitale di ogni quadro, scandita ad altissima risoluzione (da 300 a 600 MB), fino ad arrivare a diapositive retroilluminate esposte nella mostra itinerante. Inoltre è stata allestita una galleria virtuale nel sito www. caravaggio.rai.it per permetterne la visione anche a mostra terminata. Renato Parascandolo, coordinatore del gruppo di lavoro, sostiene che “grazie alle nuove tecnologie il museo può diventare un mezzo di comunicazione di massa. Le mostre possono infatti essere allestite, smontate e ricostruite con grande facilità in tutte le principali città del mondo.”

b) Gallerie virtuali per opere “reali”: esistono siti internet che sono costruiti come veri e propri musei. Infatti contengono le immagini digitalizzate di opere d’arte realmente esistenti che vengono in questo modo “esposte” e/o vendute al pubblico; la maggior parte dei siti museali si basa su tecnologie web standard, con immagini in formato Jpeg che comportano un degrado della qualità spesso intollerabile per una fruizione soddisfacente di opere visive; molto diffuse sono le metafore di navigazione del sito basate su mappe sensibili, utilizzate per rappresentare la topologia del museo reale.
Il pubblico può interagire con gli artisti stessi commentando le opere nei forum dedicati, acquistandole on-line (insieme a libri, cataloghi, posters, riproduzioni artistiche, t-shirts, VHS, DVD, etc.), iscrivendosi alle newsletters, visitando gli studi virtuali degli artisti.
Un’esperienza del genere è presente anche in Umbria con il sito www.galleriaumbriaarte.it che promuove opere di artisti umbri e non e che l’anno scorso per la prima volta ha proposto ad Orvieto una mostra “reale” delle opere presentate fino ad allora solo attraverso le immagini presenti in rete.
I più grandi musei del mondo (dai Guggenheim alla Tate Gallery, dagli Uffizi al museo del Prado) sono ormai dotati di un sito che illustra le caratteristiche delle loro “strutture reali”, delle attività che vi si svolgono (mostre, esposizioni, dibattiti…) e che forniscono tutte le informazioni necessarie per attuare una visita “fisica”. In questo caso il museo virtuale on-line non si pone assolutamente come alternativa al museo reale, del quale non può in alcun modo sostituire le funzioni. Piuttosto, esso va immaginato come uno strumento che affianca le tradizionali istituzioni museali nello svolgimento dei loro compiti didattici ed espositivi, oltre che come mezzo di promozione del museo stesso. La natura interattiva e ipermediale del Web, infatti, si presta a fornire agli utenti tutte quelle informazioni di contesto che facilitano la comprensione storica di un reperto o di un'opera; ad esempio dare l’idea dell'ambiente originale in cui un reperto archeologico si collocava (informazione che risulta del tutto persa nella gran parte delle situazioni espositive dei musei, dove i reperti sono in genere affastellati all'interno di bacheche o teche), o dell'aspetto originale di siti archeologici di cui oggi non restano che poche vestigia.
Un’altra frontiera nel campo del connubio digitale/reale è quello delle cosiddette “mostre eterne” . Il format è nato trasformando una mostra temporanea svoltasi nella Villa Olmo di Como dal 13 marzo al 6 giugno 2004 (“Joan Mirò Alchimista del segno”) nella prima “mostra eterna” intitolata "Mirò per l'eternità, una mostra destinata a durare": infatti gli ambienti dell’esposizione e le relative opere sono stati riprodotti a 360° in maniera digitale con un’alta qualità e resi fruibili in rete nel sito www.comune.como.it/comohtml/MiroVT/splash.htm, in una duplice versione legata al tipo di prestazioni possedute dal computer dell’utente e alla tipologia della sua connessione.


L'esplorazione degli ambienti espositivi è possibile attraverso una mappa che riproduce il tour pensato dai curatori della mostra, oppure tramite un indice tematico che contestualizza le opere in base ad un argomento portante nel cammino umano e artistico di Jean Mirò. Inoltre ad ogni opera è associata una scheda di orientamento che contiene contenuti di approfondimento come il commento audio del curatore della mostra; in questo modo la visita virtuale si arricchisce di contenuti e peculiarità che la rendono non alternativa a quella reale, ma integrativa nella sua intrinseca diversità. Infatti una delle problematiche aperte riguardo alla diffusione di questo tipo di musei virtuali è proprio quella se vadano ad incrementare o a diminuire la presenza di visitatori nei musei reali; vista la sostanziale difformità di una visita reale, fisica, rispetto ad una solo veicolata da uno schermo, “in generale si può ipotizzare una complementarità tra visita reale e visita virtuale (tra contatto diretto e indiretto), la seconda potendo precedere o seguire la prima; la prima potendo essere replicata…” “La fruizione virtuale non vuole assolutamente emulare il contatto diretto con l’opera d’arte, inimitabile e imprescindibile da un’utenza diretta, ma
piuttosto […]rivoluzionare il modo cristallizzato di concepire il museo operando nella direzione di una rete di interconnessione dei vari siti tramite una realtà ipertestuale.”
Questa esperienza delle mostre eterne si pone al confine tra i due tipi di museo virtuale prima individuati: infatti, pur nascendo dalla concretezza di una mostra “reale”, viene messa in opera quando il referente reale non esiste più, quindi si configura come “raccordo ideale” tra esperienze legate alla fisicità ed altre che ne sono completamente avulse.

1.2 Museo virtuale per arte digitale

Con questo termine intendo classificare tutta quella serie di musei virtuali che non hanno alcun referente fisico:
a) nella definizione di Andrews “a logically related collection of elements composed in a variety of media, and, because of its capacity to provide connectedness and the various points of access available, [it] lends itself to transcending traditional methods of communicating with the user; it has no real
place or space, and dissemination of its contents are theoretically unbounded” .
Quindi un sito che crei percorsi di collegamento che comprendano più musei, più opere, più personaggi sfruttando l’immensa mole di dati presenti sulla rete.
Ad esempio il sito The WebMuseum, creato nel 1996 da Nicolas Pioch, che contiene link a tutti i musei del mondo, collegandone in tal modo le risorse e potendo creare dei percorsi espositivi impossibili da realizzare concretamente; inoltre chiunque può contribuire aggiungendo nuove risorse, sempre nell’ottica di una rete di persone prima che di dati.

b) Altro è il network museum, museo sì completamente virtuale, ma partendo da una concezione di arte diversa: infatti se la net.art si configura come “capacità di fare network”, la Rete stessa si trasforma nell’unico grande contenitore che può “racchiuderla”. Quindi Internet sia come “museo dinamico virtuale totale per la net.art” , che come mezzo stesso della produzione e della diffusione dell’arte. Questo concetto di network museum è stato così formulato dalla critica Tatiana Bazzichelli: “il network-museum va considerato un contenitore aperto di elementi ed entità che favoriscano la circolazione, distribuzione, evoluzione, interazione del sapere, al fine di dare origine a reti di relazioni sociali ed individuali. Tali musei si presentano quindi come luoghi di scambio di immagini, di testi, musica, che attraverso la loro digitalizzazione siano visibili, fruibili e rimanipolabili da tutti.[…] il network-museum deve quindi
facilitare la nascita dei processi comunicativi aperti fra gli individui e deve essere luogo di produzione di comunicazione collettiva ed orizzontale.”
Un processo, quindi, di scambio continuo tra artista/spettatore, nel segno dell’interattività che caratterizza quella che abbiamo definito come net.art.

c) Museo virtuale come tentativo di dare uno spazio ben definito all’arte digitale e alla net art; in questo senso si sono mosse in passato due grandi istituzioni museali come il Guggenheim e il Walker Art Center inserendo nei loro siti sezioni dedicate all’arte digitale e/o alla net art.
Steve Dietz è stato dal 1996 al 2003 curatore della “Gallery 9” del sito del Walker Art Center di Minneapolis prefiggendosi lo scopo di “raccogliere” questo tipo di opere creando un network museum, la cui forza stia in ciò che connette, non tanto in ciò che possiede. Il numero nove fa ironicamente riferimento ad un ulteriore “piano” del museo reale, che ne possiede otto; un piano aggiunto solo nella virtualità della rete e che, però, è stato bloccato nella sua “espansione” nel maggio del 2003 con il licenziamento di Dietz per mancanza di fondi. Una scelta che ha creato non poche polemiche, proprio per il ruolo di precursore che Dietz ha avuto in progetti del genere e proprio in un momento in cui la virtualità e il mondo digitale sembrano essere in ulteriore espansione. Dietz descrive così il suo lavoro: “Gallery 9 is a site for project-driven exploration, through digitally-based media, of all things "cyber." This includes artist commissions, interface experiments, exhibitions, community discussion, a study collection, hyperessays, filtered links, lectures and other guerilla raids into real space, and collaborations with other entities (both internal and external). “
Un simile progetto è stato sviluppato anche da John Ippolito per il Guggenheim Museum: infatti il sito del Guggenheim Solomon di New York (a cui si accede dal sito unificato di tutti i Guggenheim presenti al mondo) ha una sezione dedicata ai virtual project, opere digitali generalmente aperte all’interazione col pubblico. Ad esempio la net.flag di Mark Napier, famoso net.artista conosciuto, tra l’altro, per le sue Distorted Barbie.
La net.flag si presenta come una bandiera perennemente modificabile dall’utente che vi può aggiungere simboli, colori e forme derivate da tutte le bandiere del mondo; inoltre di ogni elemento viene fornito il significato, quindi la scelta del singolo può assumere una valenza che vada oltre al semplice compiacimento estetico e cromatico. Quindi la net.flag diventa l’emblema della rete vista come nuovo territorio composto da persone di varie aree geografiche e politiche. “How can the notion of a flag reflect the new reality rather than pining for a nostalgic sovereignty that no longer exists? net.flag is one answer to those questions”, scrive John Ippolito nella presentazione dell’opera.






2
Dalla bidimesionalità a tentativi di tridimensionalità fino alla realtà immersiva del CAVE

Gli esempi di musei più o meno virtuali portati finora rientrano tutti in una concezione “bidimensionale” della rete, cioè un approccio “flat” alla fruizione dell’opera. Immaginando di tracciare una linea che parte da questi musei virtuali con caratteristiche specificamente “grafiche”, tenterò di passare attraverso esperienze di tridimensionalità più o meno “profonde”: da una grafica 3D a esperienze di realtà aumentata, fino ad arrivare all’estrema sperimentazione della realtà immersiva con l’utilizzo del CAVE (cave automatic virtual environment).

2.1 Esperienze “tridimensionali”

Il Guggenheim Museum nel 1999 ha commmisionato allo studio Asymptote un progetto per un Guggheneim Virtual Museum, progetto mai messo in rete per la “pesantezza” del linguaggio con il quale è stato programmato (VRML= virtual reality modelling language), che ne rendeva quasi impossibile la fruizione per i mezzi dell’utente medio dell’epoca, e per la successiva crisi economica del Guggenheim che ha significato un notevole taglio ai fondi.
L’idea era quella di offrire al pubblico un museo esistente solamente nel web che permettesse ai suoi visitatori l’esperienza di muoversi in uno spazio tridimensionale come in quello reale. “This new architecture of liquidity, flux and mutability is predicated on technological advances and fueled by a basic human desire to probe the unknown. The path that both architectures, the real and the virtual, inevitably take will be one of convergence.”
La forma dell’edificio, che ricorda il design della famosa spirale di Frank Lloyd Wright del Solomon, è in continua trasformazione a seconda dei movimenti del visitatore e può essere ruotata interagendo con la particolare barra di navigazione. Un flusso continuo, la frantumazione dei canoni di staticità dell’architettura della “prima realtà”, come la chiama Rashid.



Entrando nel GVM ci si trova subito davanti ai tre piani, che danno l’impressione di intersecarsi l’uno con l’altro. “The Plaza” offre i servizi del museo (tra i quali il negozio). “The Venue” è l’accesso ai Guggenheim nel mondo (provvisti di web cams e tecnologie varie). Infine “The Galleries”: il luogo dove opere video, elettroniche, multimediali possono essere visitate proprio come i quadri nei musei reali.



Questo particolare mostra la peculiare incorniciatura della struttura delle gallerie ed evidenzia la relativa condizione doppia: l'acetato e l'opacità che funziona a secondo di dove il visore è nello spazio. La barra verticale è un attrezzo di navigazione che passa avanti e indietro attraverso la struttura come un'esplorazione, permettendo che la vista acceda alle varie zone del funzionamento.

Il Guggenheim aveva anche commissionato alcune opere da inserire nel GVM, in modo da essere perfettamente integrate nel museo, proprio perché realizzate con lo stesso linguaggio della struttura che le contiene. Le tecnologie usate avvicinano anche l’architettura, sempre secondo Rashid, agli originari propositi dell’arte, quella di essere fondamentalmente un’esperienza pura, al di là di materialità, concretezza, commerciabilità.

2.2 2001: Concorso per un museo virtuale indetto dal sito newitalianblood

Il sito www.newitalianblood.it , che si configura come una possibilità aperta per architetti che vogliano pubblicarvi liberamente e in tempo reale progetti, realizzazioni, testi, ha indetto nel 2001 un concorso per un museo virtuale.
“Obiettivo del concorso è attivare, attraverso il design interattivo, nuove direzioni di ricerca e sperimentazione tra arte e architettura. Il campo di indagine è abbastanza ampio per stimolare la discussione tra professionisti di discipline complementari e attrarre l'interesse di osservatori comuni, ma anche particolarmente ristretto per essere chiaramente individuato come luogo privilegiato per lo sviluppo di idee originali che coinvolgono pubblico, istituzioni, gallerie e curatori.” La gestione on-line ha offerto ai partecipanti un duplice tipo di interattività: sia quello costituito dalla possibilità di autopubblicare i progetti in modo da verificarne in tempo reale la resa sul web, sia quello di poter giudicare i progetti stessi, pubblicati i forma anonima, selezionando così, dagli iniziali 114 partecipanti provenienti da tutto il mondo, le 52 proposte che sono state presentate alla giuria esterna per l’assegnazione dei premi.
Regole e restrizioni nei formati per rendere equo ogni confronto ed assicurare velocità di navigazione con connessioni standard ed accessibilità per il maggior numero di utenti possibile: richieste due immagini o animazioni di soli 300kb e dimensione standard, ma molteplicità di espressione assicurata dalla libertà di utilizzo dei software.
Tra i progetti presentati esiste una molteplicità di approcci che risponde a diverse prospettive con le quali viene affrontata la virtualità in rapporto all’arte, all’architettura e alla musealità; infatti c’è stato chi ha proposto, pur nelle specificità del digitale, un museo virtuale ancora legato alla concezione ottocentesca di museo (Befly) e chi ha sperimentato, provocatoriamente, le possibilità esclusive offerte dal cyberspazio, in un’ottica che considera il futuro della fruizione culturale legato non tanto all’esposizione di oggetti, quanto alla gestione di “esperienze culturali” (O.P.E.R.A).
Inoltre c’è stato anche chi ha visto nella mancanza di leggi fisiche nel mondo virtuale e nelle possibilità tecniche offerte, la possibilità di eliminare barriere architettoniche e concettuali per una fruizione mirata a visitatori con deficit fisici (pcdesign).
Infine alcuni progetti hanno visualizzato, attraverso la creazione di strutture ibride, (anche se inserite in una struttura architettonico/spaziale) una fruizione delle opere che fosse una navigazione interattiva con la rete stessa ed i suoi infiniti contenuti (Degrezero/Nonlinear Architecture).

2.2.1 Web Prize: 3d interactive and dynamic museum di BEFLY ( Marco Bevilacqua, Andrea Flego)

Il progetto è nato dalla volontà di rendere ancora più stretto il già consolidato legame tra architettura e navigazione sul web, superando il sistema di navigazione ipertestuale bidimensionale e creando spazi diversificati e riconfigurabili dedicati a diverse esigenze espositive, linguistiche e formali. Infatti gli spazi espositivi sono costituiti da un ambiente tridimensionale altamente comunicativo e dinamico, che diviene esso stesso un simbolo della contemporaneità in quanto autoconfigurante, interattivo e in continuo cambiamento e che tenta in questo modo di superare il concetto di semplice contenitore di opere. Ma la sua strutturazione e il suo utilizzo restano inequivocabilmente legati ad una concezione ottocentesca di museo, anche se addizionata di alcune peculiarità tipiche della navigazione in rete.
Infatti il 3d interactive and dynamic museum si struttura così:

-archivio tridimensionale interattivo autoconfigurante, contenitore di tutte le opere acquisite mediante autopubblicazione degli artisti;

-gallerie espositive tematiche e non, tridimensionali ed interattive, semipermanenti, gestibili da un critico o da un curatore selezionando opere pubblicate nell’archivio;

-servizi “tradizionali”: contacts, e-commerce, newsgroup, forum e informazioni relative ad eventi artistici.

-Archivio-

L’archivio del "3d interactive and dynamic museum" è un ambiente tridimensionale di forma circolare, membrana osmotica e superficie di scambio input/output, con diramazioni in direzione radiale per l’immagazzinamento delle opere mediante autopubblicazione degli artisti. Da qui vengono selezionate quelle necessarie per la realizzazione della galleria espositiva tematica.
Le singole opere sono distribuite in ordine cronologico rispetto alle direzioni radiali, quindi le gallerie avranno lunghezze diverse e in continuo cambiamento a seconda del numero dei lavori; questi saranno organizzati rispetto ad una scala di valori (espressa con tonalità dal viola all’arancio) determinata dal rapporto tra numero di visitatori acquisiti e il tempo di pubblicazione sulla rete.
In questo modo il valore commerciale delle opere, generalmente determinato da un critico, non è più l’unico parametro a definirne il successo.


La ricerca è effettuata su quattro parametri:
- autore
- titolo
- anno
- più “visitati”.
L’archivio avrà diverse configurazioni spaziali e formali a seconda delle diverse strategie di ricerca usate:
-per autore  i risultati saranno visualizzati raggruppati in base alla scala cromatica dei più visitati ;
-per anno o per periodo  il risultato sarà visualizzato in ordine alfabetico e in base alla scala cromatica dei più visitati;
-per quantità di visitatori  le opere d’arte in un determinato range di visitatori saranno visualizzate in ordine alfabetico.
La galleria espositiva

La galleria espositiva è organizzata in un ambiente tridimensionale digitale dedicato alle esigenze spaziali, formali e comunicative delle opere esposte. Nuovi spazi tridimensionali potranno essere creati in base alle necessità, così che il numero delle gallerie espositive sia in grado di modificarsi ed espandersi praticamente senza limiti. Le opere sono selezionate e filtrate dall’archivio del museo da un curatore o critico responsabile.
Prima di intraprendere una visita sarà possibile consultare informazioni relative ai contenuti dell’esposizione e selezionare il livello di definizione e visualizzazione del modello tridimensionale in rapporto alla velocità della propria connessione alla rete.
Le gallerie possono svilupparsi secondo un’unità di grandezza rapportabile alla distanza di percorrenza e alla velocità di scaricamento dati del singolo navigatore.

Le diverse gallerie possono sovrapporsi o intersecarsi quando ci sono delle connessioni di contenuti espositivi, in modo da poter permettere al visitatore di spostarsi da una all’altra. La trasparenza delle superfici permette di verificare la presenza o meno di altre gallerie adiacenti con le quali connettersi.
Le diverse esigenze di separazione spaziale tra i vari gruppi di opere all’interno del percorso espositivo determinano la forma (compressione, dilatazione) della galleria. Tali scelte sono concordate dal curatore della mostra.
I pannelli espositivi hanno dimensioni variabili per accogliere gruppi di opere tematiche selezionate dal critico. Il loro colore, a differenza degli altri elementi che sono personalizzabili dall’utente, è bianco per restare il più possibile neutro rispetto alle opere esposte.
Le opere all’interno della galleria sono delle prewiew dalle quali è possibile ottenere delle informazioni aggiuntive : autore, titolo, anno, dimensioni in Kb o linkarsi all’opera stessa.
Durante la navigazione è possibile individuare in tempo reale altri navigatori presenti nel museo, diversificati mediante un proprio simbolo, colore, nickname, con cui chattare, chiedere informazioni o intrattenersi in conversazioni tematiche. Proprio in questo senso questo museo virtuale, attraverso lo strumento della chat, si apre ad un’innovazione sostanziale che ribalta la consueta esperienza “solitaria” della visita virtuale, per creare un collegamento tra utenti che consenta uno scambio di informazioni e che diventa esso stesso parte di quell’idea di network museum prima esplicata.

2.2.2 Grand Prize : O.P.E.R.A. (Nathan L. Coolkit, Micheal R. Sablone, David M. Shafer, Gregory M. De Pena)

Questo progetto ha vinto il premio principale forse proprio per l’estrema innovatività della sua visione di un museo virtuale; infatti, eliminata ogni residua struttura legata ad un’idea tradizionale di “esposizione” e anche di “arte”, tutto si concentra sull’uomo, sul suo pensiero e sulla sua esperienza.
Una visione antropologica e “fantascientifica” del museo e della virtualità che diventa il mezzo attraverso cui l’uomo costruisce le proprie esperienze culturali, che stanno diventando, come sostiene J. Rifkin, la nuova frontiera del cosiddetto “capitalismo culturale”: “…un capitalismo culturale completo, che si appropri non solo dei significanti della vita culturale e delle forme artistiche di comunicazione che tali significanti interpretano, ma anche dell’esperienza vissuta”. “Il ciberspazio, dunque, sostituisce la realtà virtuale al reale; naturalmente, è l’atto di vivere queste esperienze nel ciberspazio a renderle reali.” E proprio su questo si incentra la “visione” del futuro di Opera: “space is no longer something i build in. It is space i build with[…] thought is action. I console the tools and interface fragments of past worlds into oblivion.”

Cyberspazio come unica e ultima possibilità di “liberare” l’uomo e l’arte: “there is a place where art laughs and plays on a playground of freedom. […]there are no tomorrows or yesterdays, the art does not fret or scheme. There is only today; the first and last day of art's eternal journey. Paintings do not hang on walls and sculptures rest their feet. Songs dance with poems and photos chastise apparel. Nature is unnaturally removed and there are no exhibits to inhibit movement. This place is a home to everyone, without prisoners of architecture. The art is living in a self-directed consequence of space, rewriting histories in a thousand futures. Mortar and brick dissolve into flicker and click.”
Una visione in un certo senso “apocalittica” in cui “le possibilità reali del corpo legate al mondo fisico non contano più. La velocità di reazione della mente si moltiplica per andare oltre l'immagine dello spazio costruito e comunicare lo spazio del pensiero.”

2.2.3 Premio under 36: 300 kb museum (Degrezero/Nonlinear Architecture)

Questo progetto crea uno spazio astratto dalle marcate caratteristiche architettoniche, anche se delinea non un “a real-virtualized space, but rather as a hybrid space blending search engine utilities with tectonic logics and spatial experience.” Infatti il 300 kb museum è concepito come un dispositivo per la navigazione, in modo da accedere alla rete, il più grande museo del mondo.
Ritorna il concetto di museo come collegamento alle varie informazioni presenti sul web; “the web, by combining artworks, art related content and research from everywhere has become a huge cultural phenomenon.”

Visione esterna
Dall’esterno del museo il visitatore, non più legato alla gravità del mondo terreno, “vola” verso l’atrio che propone in tempo reale ciò che accade nel museo in ogni istante; livelli multipli di informazioni si dispiegano nello spazio su schermi sovrapposti che contengono immagini, testi, filmati, oggetti in 3D e link ad ogni opera.
Il layout del museo è basato sulla sovrapposizione nel tempo delle opere esposte nelle gallerie; il visitatore può “filtrare” visivamente la collezione attraverso criteri quali il nome dell’artista, la data, il movimento artistico e parole chiave definite di volta in volta, in modo da costituire un percorso personale che si snoda in maniera non lineare, ma seguendo nodi tematici e ipertestuali.

Nodi di percorsi che si sviluppano a seconda delle scelte del visitatore
Questo progetto è simile a quello sviluppato nel 1999 dallo studio Asymptote per il Guggenheim Virtual Museum, ma in più ha la caratteristica di essere programmato in modo da “pesare” solo 300 kb (come si evince dal titolo, e come era stato posto nei vincoli del concorso) : questo lo renderebbe teoricamente accessibile alla maggioranza dei computer e delle connessioni.

2.2.4 Categoria under 36: VMAC (Virtual Museum of Contemporary Architecture and graphic art) (Pc design)

Anche se questo progetto non ha ricevuto alcun premio, merita una trattazione per la sensibilità mostrata nell’utilizzare la virtualità come “mezzo” per tentare di abbattere le barriere architettoniche che si pongono agli ipovedenti nell’approccio ad una visita museale. Un percorso certo in salita se si considera l’intrinseca difficoltà di partenza per un ipovedente ad esperire un’ arte visiva: la sfida consiste proprio nel cercare di sfruttare le potenzialità tecnologiche e concettuali del museo virtuale per ovviare al massimo questa difficoltà.
Infatti il VMAC è un museo anche “sonoro”, nel senso che una voce guida le azioni del visitatore, orientando le sue scelte (da effettuarsi con il mouse) e descrivendo le opere che sono presenti.
Lo spazio è diviso in quattro direzioni principali (up, down, left, right) a cui corrispondono quattro diverse ali del museo contenenti ciascuno un determinato numero di artisti (in questo caso tre); la sezione dedicata ad ogni artista comprende informazioni ed approfondimenti.
Alle quattro direzioni principali si aggiungono le quattro direzioni intermedie (centerleft, centeright, centerup, centerdown) a cui corrispondono le sezioni dedicate ai servizi: contact, news, mapsite, reserved.
Contact è l’area in cui, previo inserimento dei propri dati, si possono mandare messaggi per richiedere informazioni;
news è ovviamente il luogo che contiene le novità e le notizie aggiornate in tempo reale;
mapsite visualizza la struttura del sito ed indica cosa contengono le varie parti, ma, in questo caso non esiste un corrispondente audio di questa funzione: infatti la voce sintetica indica soltanto come fare per uscire dalla sezione;
reserved rappresenta la possibilità di accedere a zone riservate, appunto, attraverso un login.
Le uscite di ogni sezione sono sempre programmaticamente opposte alle entrate per ottenere un senso di continuità spaziale e per facilitare ulteriormente la fruizione.
In questo caso il museo virtuale si stacca da una dimensione che, a volte, fa pensare ad un semplice divertissement estetico e filosofico, per aderire fortemente alla realtà di un deficit fisico nel tentativo di ovviarlo il più possibile.

Le esperienze finora esaminate, pur mostrando tutte un tentativo di rompere la bidimensionalità tipica del mezzo, restano comunque confinate entro una dimensione che le lega inevitabilmente allo schermo. Anche in presenza di ipotesi di ambienti tridimensionali, la fruizione che di essi un visitatore ha resta comunque confinata nel gap fisico tra l’uomo e il monitor.
Nuove frontiere di ricerca tendono a ridurre sempre più questo confine, in un percorso che sembra riappropriarsi della fisicità e della sensorialità attraverso la mediazione di macchinari sempre più sofisticati, aggiungendo così nuove valenze e potenzialità all’uomo.
Parlo delle tecnologie della augmented reality e della realtà immersiva che ora andrò ad esaminare.









3
La Augmented Reality

3.1 Definizione

Con Augmented Reality (AR) si intendono quelle applicazioni nelle quali ad una visione della realtà fisica si aggiungono informazioni virtuali, in modo che coesistano nella stessa scena, nella quale l’utente può muoversi liberamente; l’”aumento” virtuale deve essere il più possibile coerente con l’immagine percepita fisicamente della persona, in modo che non si possano distinguere. Quindi un reale che, al bisogno, diventi “più denso di informazione, di sensazioni e di possibilità di quanto non sia esperibile comunemente attraverso la nostra sensorialità.” Ciò viene reso possibile attraverso una serie di dispositivi hardware estremamente sofisticati e, soprattutto, di dimensioni e peso limitati tanto da essere indossabili: gli wearable computers.
Nello specifico della AR si tratta generalmente di visori “see-through” capaci di sovrimporre, in maniera perfettamente allineata, grafici, scritte ed immagini di sintesi alla normale visione dell' utente grazie a dispositivi che ne tracciano la posizione e l’orientamento della testa. Esistono due tipologie di visori:
visore see-through ottico e visore see-through video.
Nel primo caso viene impiegato un divisore di fascio ottico consistente in uno specchio traslucido che trasmette la luce in una direzione e contemporaneamente riflette la luce nell' altra. Orientato correttamente davanti all'occhio dell'utente, il divisore di fascio può riflettere l'immagine di un display e porla sulla linea di vista dell'utente permettendo contemporaneamente il passaggio della luce proveniente dal mondo circostante. Alcuni obiettivi ottici possono essere disposti fra il divisore di fascio ed il display per mettere a fuoco l'immagine in modo che compaia ad una distanza comoda per l'osservazione. Se sono disponibili due interi sistemi ottici di visualizzazione, uno per ciascun occhio, allora si parla di visori stereoscopici.


Nel secondo caso vengono utilizzate due telecamere, una per ciascun occhio, che acquisiscono l’immagine reale che viene fusa con quelle di sintesi attraverso un sistema computerizzato che le rinvia agli occhi tramite due display. Questa scelta permette di realizzare effetti visivi più complessi ma ha un feeling diverso dal visore ottico perchè impone un piano di messa a fuoco costante per tutta la scena e questo rende il sistema poco confortevole.



Per quanto riguarda il sistema di tracking per rilevare la posizione dell’osservatore (e conseguentemente alterare l’immagine sovrimposta), si usano in genere sensori (posti sugli oggetti in movimento) e punti di referimento. Usando ultrasuoni, sistemi ottici o elettromagnetici è possibile determinare le posizioni relative tra il punto di referimento e i sensori mobili. In particolare usando sistemi ibridi è possibile aumentare di molto la precisione della misura fino ad arrivare nei sistemi più sofisticati a precisioni di millimetri.
Le possibili applicazioni della AR si estendono in numerose direzioni:
-in medicina un chirurgo potrebbe avere impresso sopra il paziente la visione a raggi X o una tomografia assiale o una ecografia, informazioni utilissime durante un’operazione;
-nei sistemi di manutenzione e montaggio, specie in casi in cui è necessario avere le mani il più libere possibile;
-in campo militare, per esempio per vedere le posizioni dei cecchini nemici costantemente individuate da ricognitori senza equipaggio;
-nel campo dei videogiochi;
-nel campo delle comunicazioni con possibilità di parlare in video conferenza conversando come se l’interlocutore fosse presente nella stessa stanza;
-in un’ottica didattico-culturale;
Più generalmente la AR estende il suo campo d’azione ad qualunque settore della vita quotidiana nel quale occorra una serie di informazioni per compiere un’operazione o quando viene utilizzato come strumento operativo un computer.
Per quanto riguarda nello specifico l’indagine sui sistemi di informazione didattico-culturali e sulla applicazione della AR al mondo dell’arte, analizzerò l’opera di una studiosa italiana, Flavia Sparacino, master al “Media Lab” del MIT di Boston.

3.2 Flavia Sparacino e il “wearable museum”

Flavia Sparacino definisce così il wearable museum: “ a wearable computer which orchestrates an audiovisual narration as a function of the visitor’s interests gathered from his/her physical path in the museum and length of stops. It offers a new type of entertaining and informative museum experience, more similar to mobile immersive cinema than to the traditional museum experience.”
La sua riflessione parte dalla costatazione che il museo deve rispondere alle esigenze di un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo, che ha priorità e richieste diverse. A seconda del tipo di approccio con un’esposizione, vengono individuate tre categorie principali di visitatori:
-the greedy type: “wants to know and see as much as possible, and does not have a time constraint “ ; potremmo definirlo il visitatore attento, interessato a conoscere ed approfondire tutti gli argomenti che trova esposti;
-the busy type: “just wants to get an overview of the principal items in the exhibit, and see a little of everything” ; potremmo definirlo il visitatore frettoloso, che vuole avere una visione d’insieme, ma non si cura dell’approfondimento;
-the selective type: “wants to see and know in depth only about a few preferred items” ; il visitatore in questo caso sceglie uno o più argomenti da approfondire e si cura solo di quelli.
E’ chiaro che un percorso museale “tradizionale” difficilmente potrà soddisfare appieno le esigenze di ciascuna categoria (considerando poi che queste sono solo delle semplificazioni, ma ogni persona potrebbe, teoricamente, fare categoria a parte); invece l’utilizzo del wearable museum rende ogni singolo individuo libero di scegliere il percorso di osservazione e/o di approfondimento più adatto alle proprie esigenze. Inoltre gli allestitori ottengono anche maggiore spazio fisico, derivato dall’eliminazione delle eventuali postazioni informative (tradizionali o informatiche).
Infatti il “wearable museum” è così concepito:
-un computer piccolo e leggero che il visitatore porta in una borsa;
-un piccolo display della grandezza di un occhio (chiamato “private eye”) attaccato a robuste cuffie audio. Dopo aver indossato il display e dopo qualche istante di adattamento, il cervello del visitatore fonde l’immagine proveniente dall’occhio “libero” con quella proveniente dal display in un’unica immagine di realtà aumentata.

Inoltre una serie di sensori, posti vicino alle normali luci, rilevano le informazioni relative al tipo di percorso effettuato dal visitatore (numero, durata e tipologia delle soste) mandate da un dispositivo collocato nel visore; in questo modo il computer può assimilare questi dati e creare il percorso e il tipo di informazioni più adatto alle esigenze del singolo. Questa possibilità, pur affascinante nelle sue future possibili applicazioni, mi lascia personalmente il dubbio che nessun tipo di modello matematico desumibile da un insieme di dati possa capire quali siano realmente le esigenze culturali di una persona; inoltre, limitando, ad esempio, il numero e/o la tipologia delle informazioni da fornire ad ognuno, si limita anche l’eventuale possibilità di un “cambiamento in corso”. Per me la realtà aumentata ha senso nella sua prospettiva di ampliare al massimo la quantità delle informazioni disponibili, non in quello di limitarle; la scelta dovrebbe sempre rimanere prerogativa dell’uomo e non della macchina, anche se questa si basa su parametri desunti dal comportamento stesso dell’uomo.
Invece la possibilità di poter disporre di una notevole quantità di informazioni, altrimenti non gestibili con i metodi tradizionali, il vantaggio di vederle visualizzate insieme all’opera a cui si riferiscono, la libertà di non dover seguire dei percorsi predefiniti (i sensori forniscono la posizione del visitatore rispetto alle opere), rende questa tecnologia una delle frontiere da esplorare e da migliorare (contando anche su una continua e spesso rapidissima evoluzione dell’hardware).
Il wearable museum è stato sperimentato durante la mostra “Robots and Beyond” svoltasi al MIT Museum.

3.3 Flavia Sparacino e il progetto “City of News”

Questo lavoro parte dalla costatazione di una duplice esigenza: da un lato la mancanza di un efficace modo d’interazione con gli ambienti virtuali tridimensionali (più evoluto di un joystick, ma meno “fastidioso” di visori, guanti…) e dall’altro le problematiche create dall’approccio flat di tutti i browser per la navigazione in internet, che si propongono con metafore legate ai libri (sfogliare, segnalibro, pagina…) mentre l’idea che ognuno ha della rete è quella di un luogo (sito, indirizzo) in cui muoversi. Anche se la bidimensionalità dei browser attuali ha come pregio l’accesso rapido e visibile ai dati interconnessi, il navigatore rischia di trovarsi disorientato perché perde rapidamente le tracce delle informazioni trovate in precedenza e non ha la prospettiva di cosa può raggiungere dalla pagina in cui si trova.
City of News propone sia un browser tridimensionale che, basato sulla metafora architettonica della città, organizza le informazioni inserendole in uno spazio urbano virtuale, che un’interfaccia naturale per fruirlo.

3.3.1 L’interfaccia

La fruizione di ambienti tridimensionali è tendenzialmente legata ad un tipo di abbigliamento particolare (guanti, visori, sensori) che rendono generalmente difficoltosi i movimenti; visto che la naturalità e la semplicità sono gli obiettivi di partenza di questa interfaccia, il visitatore dovrà avere la possibilità di entrare nell’ambiente tridimensionale “just by stepping into the sensing area” .
In questo caso lo spazio interattivo si limita al desktop costituito da uno schermo dietro ad una scrivania, a cui si affiancano un paio di telecamere poste ai lati dello schermo ed usate per ottenere una rappresentazione 3D della testa e delle mani del visitatore e un sistema audio stereofonico.


“This configuration allows the user to view virtual environments while sitting and
working at a desk. Gesture and manipulation occur in the workspace defined by the screen and desktop. This type of interactive space is suited for detailed work” .

Un’altra modalità di postazione per usufruire di City of News è simile alla precedente, ma prevede uno schermo molto più grande e la possibilità per l’utente di stare in piedi.


In questo caso “people physically walk onto different locations of the floor
map and trigger consequently the front surface projection to show the correspondent City of News web page location in 3D space. One can see the floor map projection like a mouse pad, and the person walking onto the map like the mouse driving the system.”

3.3.2 Il browser 3D: City of News

City of News parte dal presupposto che la mente umana ha una grande facilità di ricordare attraverso un tipo di memoria “spaziale”, che costruisce una serie di mappe mentali; il browser capitalizza questa abilità configurando Internet come una “città dell’informazione”: “the URLs are displayed so as to form an urban landscape of text and images through which the user can navigate.”

Questa città virtuale cresce dinamicamente ogni volta che una nuova informazione viene ricercata: infatti “following a link causes a new building to be raised in the district to which it belongs, conceptually, by the content it carries, and content to be attached onto its “façade”. […]The spatial, urban-like, distribution of information facilitates navigation of large information databases, like the Internet, by providing the user with a cognitive spatial map of data distribution.”

Per esplorare questo ambiente tridimensionale l’utente si pone davanti allo schermo (seduto o in piedi, come abbiamo visto) e utilizza gesti delle mani e delle braccia: per esempio muovendo in alto e in basso entrambe le braccia scorre una pagina, oppure alzando entrambe le braccia ottiene una visione dall’alto della città e, quindi, della distribuzione delle informazioni.
Quando si erge una nuova costruzione e il suo contenuto viene caricato sulla facciata, la camera virtuale si muove automaticamente verso una nuova posizione che ne costituisce il miglior punto di vista. “All the virtual camera movements are smooth interpolations between “camera anchors” that are invisibly dynamically loaded in the space as it grows. These anchors are like rail tracks which provide optimal viewpoints and constrain navigation so that the user is never lost in the virtual world.”

3.4 Applicazioni della AR alla danza e al teatro

La riflessione di Flavia Sparacino e degli altri studiosi del MIT si è concentrata anche sull’applicazione della realtà aumentata in performance teatrali e di danza.
Viene applicato in diverse maniere l’IVE (Interactive Virtual Environment), che consiste in un ambiente interattivo che consente l’interpretazione dei movimenti di un (per ora) singolo performer attraverso un dispositivo chiamato Pfinder e la contemporanea riproposizione su uno schermo di immagini, testi, musica e suoni.
L’IVE stage è un’area grande come una stanza in cui è posizionato un grande schermo sul quale vengono proiettate immagini o proiezioni grafiche desunte dai movimenti del performer, rilevati da una telecamera grandangolare posta in cima allo schermo e rielaborati attraverso il sistema di tracking chiamato Pfinder.

Pfinder (person finder) è un sistema “for body tracking and interpretation of movement of a single performer” che, partendo dall’osservazione dello stage vuoto, rileva i cambiamenti che intervengono nel momento in cui vi entra un performer e ne analizza i movimenti in tempo reale; il sistema assegna ad ogni parte del corpo un colore, in modo da percepire ogni movimento anche quando le varie parti si sovrappongono.

Le mani vengono rilevate correttamente anche se sono davanti al corpo

Per quanto riguarda il mondo della danza, rifacendosi a teorizzazioni contemporanee che concepiscono il ballo e il movimento come espressioni primarie rispetto alla musica che li accompagna, viene proposto Dance Space come utilizzazione dell’IVE e di Pfinder.
Dance Space è un palco interattivo che sfrutta la capacità di Pfinder di rilevare e riproporre graficamente in tempo reale i movimenti di un danzatore; ad ogni parte del corpo (testa, mani, piedi, busto) viene associato un singolo strumento musicale, quindi ad ogni movimento sarà associata una melodia o una ritmica.
Ad esempio i movimenti della testa funzionano come regolatore di volume, alzandolo o abbassandolo a seconda della distanza dal suolo; oppure la distanza delle braccia dalla testa può regolare l’altezza di una nota.
In questo modo la coreografia stessa crea la musica nella quale viene rappresentata e può avvalersi anche di una visualizzazione grafica proposta sullo schermo retrostante.

Per quanto riguarda il teatro, la realtà aumentata si configura con l’azione di cosiddetti Media Actors in combinazione con attori reali; i Media Actors sono “images, video, sound, speech, text objects, which are able to respond to movement and gesture in believable, aesthetic, expressive, and entertaining manners.” Il software che li produce è guidato da una serie di sensori che “interpretano i dati della realtà esterna, e generano una sorta di percezione interna al programma la cui interpretazione, e quindi risposta, dipende dallo schema generale di comportamento attribuito al mediattore stesso attraverso una complessa tecnica di authoring.”
In una sperimentazione del 1996 chiamata Improvisational Theatre Space, sullo schermo di proiezione era possibile vedere i Media Actors usati “to augment the play by expressing the actor’s inner thoughts, memory, or personal imagery, or by playing other segments of the script.”
Un utilizzo, quindi, nel senso dell’improvvisazione e di una certa “generatività” casuale del software che si è già riscontrata in precedenza nella net.art.
In ogni caso l’applicazione dei media actors e dell’IVE stage non elimina la fisicità del teatro, non la limita nei movimenti con utilizzo di un abbigliamento particolare (caschi, visori…) ma la aumenta, appunto, di altre potenzialità derivanti dalle tecnologie digitali.

4
Dalla AR alla Realtà Immersiva del CAVE

La linea che mi ero proposta di tracciare seguendo un percorso di crescente “immersione” nel mondo della virtualità arriva a quella che viene definita “realtà immersiva” attraverso la tecnologia chiamata CAVE.

4.1 Cosa è un CAVE

CAVE è un acronimo che sta per Cave Automatic Virtual Environment e designa una tecnologia nata nel 1992 nell’Università dell’Illinois a Chicago: “a multi-person, room-sized, high-resolution, 3D video and audio environment.”
Il CAVE è una piccola stanza (3x3x2.7 metri) le cui pareti e il pavimento sono costituite da schermi retroproiettati ad alta risoluzione (1024x768) sui quali vengono riprodotte immagini stereoscopiche a 96 Hz. Le immagini sono percepite in 3D grazie all’utilizzo di occhiali particolari che sono sincronizzati con il computer attraverso dei sensori. Il computer manda, alternativamente, immagini per l’occhio sinistro e per il destro; quando vengono proiettate quelle “per l’occhio sinistro”, gli occhiali impediscono la visione al destro, e viceversa.
“This tricks the brain and gives the illusion that the left eye is seeing the left perspective and the right eye is seeing the right perspective.”

Visto che la prospettiva dell’utente deve essere molto accurata, è necessario un sistema di rilevamento in tempo reale della posizione della sua testa, legato a sensori posizionati all’interno degli occhiali: anche se in un cave possono entrare più persone, il rilevamento della posizione può essere fatto, per ora, solo per un singolo. Quindi gli altri devono mantenersi il più vicino possibile alla prospettiva di quest’ultimo, onde evitare di usufruire di una visione scorretta.
Anche se il cave allarga la possibilità di una immersione nella virtualità ad una molteplicità di utenti contemporanei, in realtà il visitatore “attivo” è solo uno, mentre gli altri restano “passivi”. Inoltre, per evitare problemi di straniamento e disorientamento tipici di altre realtà immersive, il cave non è totalmente distaccato dalla realtà: infatti i visitatori possono vedere il proprio corpo e cosa li circonda veramente. Questo diminuisce anche i casi di nausea legati alla mancata visualizzazione della propria fisicità.
L’utente può esplorare il mondo virtuale anche attraverso un puntatore chiamato wand: è costituito da tre pulsanti e un joystick sensibile alla pressione attraverso i quali si possono selezionare gli oggetti nel mondo virtuale per avere, ad esempio, maggiori informazioni. Il wand emette anche un raggio luminoso virtuale per facilitare il “puntamento” dell’oggetto desiderato da parte del visitatore e contiene anche dei sensori per il rilevamento della posizione che vanno ad aggiungere le loro informazioni al sistema di tracking.


Il software che regola il cave si chiama Cave Library e controlla i display, il sistema di tracking…, quindi genera la prospettiva corretta, sincronizza lo schermo…”It handles hardware specific tasks so that details of the hardware being used are transparent to applications. It reads various tracking devices (InterSense, Ascension Flock of Birds, Spacepad and PC Bird, Polhemus, Logitech, etc); computes accurate, viewer-centered, stereo perspective for arbitrary display screens; takes care of multi-processing, synchronization, and shared memory; and provides general utility functions.” Anche se è stato creato per il cave, viene supportato anche da tecnologie che sono state sviluppate successivamente, come l’ImmersaDesk (“one-screen, drafting table style device” ) o l’InfinityWall (“large, single screen display using four tiled graphics pipes for increased resolution” ).
Una parte molto importante della cave library è il cave simulator che “is used to create the virtual environment, to place the objects in the space, to define and test the computation that takes place in the virtual environment, and to tune the application as much as possible before using the actual CAVE hardware.”

Questa tecnologia è molto costosa e, quindi, non sono molti i luoghi dove è possibile trovare un cave; esempi si trovano in Giappone, negli Stati Uniti, mentre in Europa ne troviamo un esemplare stabile a Linz all’Ars Electronica Center.
Nel 2001 è stata creata una nuova generazione di cave chiamati BAT CAVE (Bright Advanced Tecnology) caratterizzati da un particolare tipo di proiettori e da schermi scuri per garantire un migliore contrasto. Così si aumenta la luminosità, la chiarezza e la profondità della prospettiva creando simulazioni in tempo reale maggiormente accattivanti e vicine alla realtà.
L’immersione nel cave è un viaggio virtuale in un mondo di “ombre” al quale filosoficamente fa riferimento anche il nome stesso di cave: il mito della caverna di Platone.

4.2 Franz Fischnaller e il progetto CityCluster

Citycluster : ”Dal Rinascimento all’ Era-dei- Megabyte-in-rete” nasce nel 2003 dalla collaborazione tra l’Università dell’Illinois nella persona di Franz Fischnaller e istituzioni italiane come l’Università di Firenze, la Regione Toscana e la Provincia e il Comune di Firenze.
Franz Fischnaller è un media artist italiano che insegna all’Università dell’Illinois a Chicago specializzato nella produzione di applicazioni per la realtà virtuale, produzioni digitali, installazioni interattive e progetti di realtà immersiva.
In questo progetto ha utilizzato la tecnologia del CAVE e dell’AGAVE (Access Grid Aumented Virtual Environment) che del cave è il sistema di visualizzazione. Quest’ultimo è un sistema passivo di proiezione stereografica attraverso il quale il pubblico vede un contenuto immersivo usando occhiali per la visione 3D. L’ AGAVE è composto da uno schermo argentato a discesa che conserva la polarizzazione, due proiettori LCD con polarizzatori lineari o circolari di fronte ad ogni lente ed un PC, guidato da un doppio processore Linux, con una scheda grafica capace di una doppia uscita video.
CityCluster è un progetto in cui tele-immersione, realtà virtuale collaborativa, rete ad alta velocità, cultura, storia, comunicazione ed arte sono integrate in un tutto unico. Questa istallazione crea un collegamento in tempo reale tra Firenze e Chicago attraverso l'interconnessione di due stazioni d'accesso, una fornita dal CAVE dell'Electronic Visualization Lab di Chicago, l'altra realizzata a Firenze con un sistema di visualizzazione AGAVE. In questo modo si crea un territorio virtuale condiviso, composto da due ambienti: Firenze, simbolo dell'età del Rinascimento, e Chicago, simbolo dell'era del "Gigabits", all'interno del quale i visitatori possono navigare e incontrarsi, possono trasformare edifici e oggetti, scambiarsi idee e creare la loro città ideale. L’utente può sperimentare un viaggio interattivo che abbatte le barriere spazio temporali partendo dall’epoca rinascimentale, per arrivare all’era digitale a banda larga che trova il suo fulcro a Chicago. Ciascuna città è abitata da avatar attraverso cui il visitatore può esplorare, manipolare ed interagire in tempo reale con l’ambiente circostante, ad esempio prendendo elementi architettonici da uno scenario per inserirli in un altro. Gli edifici possono, quindi, essere trasposti per creare una città nuova che propone elementi caratteristici di entrambi gli scenari proposti.
Lo scenario della Firenze del Rinascimento è luminoso e brilla della luce dell’uomo che si riscopre essere al centro dell’universo.

Questo ambiente virtuale consente una larga serie di azioni e di trasformazioni. Per esempio è possibile modificare la texture di alcuni luoghi, in modo da renderla trasparente e permettere la vista degli affreschi, dei dipinti e/o delle sculture ivi contenute. Così l’intera città si trasforma in “a painting…transparent and penetrable…” Inoltre lo scenario è popolato da personaggi e dettagli di famosi dipinti del rinascimento, trasformati in creature interattive tridimensionali con le quali il visitatore può interagire.

Gli avatar presenti nello scenario rinascimentale sono David, Venus e Machiavelli, ognuno con le proprie caratteristiche e peculiarità di azione.
David è ispirato alla statua del David di Michelangelo, Venus alla Venere del Botticelli e Machiavelli nella forma ricorda un proiettile, un’arma e si caratterizza come una potenza distruttiva che, al suo passaggio, può trasformare il paesaggio florido e solare in uno desolato e devastato.
Lo scenario di Chicago rappresenta la Megabyte Networking Era: un ambiente nebbioso e caratterizzato da toni freddi con alcuni accenti luminosi e di colore. Il lago Michigan è “an ocean of optical fibers, changing tonality and generating music as the visitor threads the water.” Emergono nel paesaggio I grattacieli tipici della “scuola di Chicago” e diventano dei luoghi in cui il visitatore può trovare ampio margine d’interazione.

Gli avatar presenti in questo ambiente sono Picasso, Mega e Giga; Picasso è ispirato alla statua dell’omonimo autore posta in Daley Plaza, Mega è un avatar metamorfico, la cui costante trasformazione dipende dalla quantità di informazioni che riesce ad accumulare; infine Giga è composto da forme geometriche cromate unite a formare una scultura interattiva: infatti quando un visitatore gli si avvicina, Giga si apre, diventa uno schermo con il quale condivide le proprie informazioni.

Tutti gli avatar di questo progetto possono essere definiti come “interactive masks, fictional characters, virtual embodiments, or wizard entities, but never as puppets. These avatars, do not appear in a "figurative" mode and even less realistic in their interactive concept but instead, are a creative interpretation based in fictional and interactive characters. In addition to being the alter ego of the visitor and his extension, in the virtual environments.”
All’interno della scena principale si trova una sorta di finestra o pannello di navigazione multifunzionale chiamata “Meta-Net-Page”: un ricognitore virtuale, capace di rilevare informazioni, immagini e dettagli che sarebbero altrimenti zone invisibili o realtà intangibili ad occhio nudo. Indica le coordinate dell'utente in un determinato momento e fornisce informazioni più dettagliate sugli oggetti nel suo raggio visivo. Permette di zoomare in avanti e indietro avvicinando o allontanando il pannello dai propri occhi. Il visitatore può volare in cielo per avere una visione complessiva della città che sta esplorando. Poi, usando un bottone su un lato del Meta-Net-Page, può "teletrasportarsi" immediatamente nel luogo visualizzato sul view panel.
Soprattutto il Meta-Net-Page permette la resa di molteplici punti di vista: quello dell'utilizzatore del pannello, quello del pannello del suo/della sua compagna di rete, e un terzo punto di vista esterno, possono essere rappresentati tutti insieme. I concetti di "locale" e "distante" cominciano a dissolversi quando i visitatori condividono prospettive multiple attraverso il Meta-Net-Page.
Inoltre il Meta-Net-Page consente al visitatore di:
-catturare delle istantanee del mondo virtuale visitato;
-prendere dei “pezzi” dall’ambiente, ad esempio delle texture, per riutilizzarli in altri luoghi;
-“specchiare” il proprio avatar per renderlo visibile a se stesso ed agli altri visitatori;
-attivare determinati dettagli che sono contenuti in maniera latente nell’ambiente virtuale.

CityCluster ha lo scopo di permettere la collaborazione interdisciplinare remota e creativa in modo da evidenziare le diverse relazioni condivise al di sopra delle culture, coinvolgendo i singoli, dislocati in varie località, in un’opera d’arte facente capo ad un’unica rete virtuale. I visitatori possono esplorare nuove frontiere offerte dalla combinazione di reti ad alta velocità che collegano varie località geografiche e di realtà virtuale.

4.3 Applicazioni del CAVE per “esplorare” virtualmente alcuni dipinti famosi: “L’ultima cena” di Leonardo e “Las Meninas” di Diego Velasquez.

Un’altro modo di sfruttare le potenzialità della realtà immersiva del CAVE è quello di creare dei percorsi interattivi tridimensionali all’interno di famose opere d’arte; in questo modo il visitatore riesce a sentirsi inserito in un contesto spazio-temporale completamente diverso da quello che gli è familiare, può agire con i personaggi di dipinti universalmente noti seguendo alcuni itinerari di riflessione che possono mettere in relazione realtà storico-artistiche anche molto distanti fra loro.

4.3.1 L’ultima cena rivista da Franz Fischnaller

“L’ultima cena interattiva” è un progetto il cui obiettivo è realizzare un viaggio nel capolavoro di Leonardo attraverso la realtà virtuale; anche se è stato creato per essere esperito all’interno di un cave, può funzionare anche in altri dispositivi di realtà immersiva quali l’ImmersaDesk.
Il visitatore può navigare intorno e dentro la chiesa di Santa Maria delle Grazie ed entrare nel refettorio dove Leonardo ha dipinto questo suo capolavoro;

Immagine del refettorio; sulla parete di fondo si intravede il dipinto
avvicinandosi alla parete contenente l’opera, il dipinto diventa progressivamente trasparente e mostra la rappresentazione grafica del teorema di Leon Battista Alberti chiamato “costruzione legittima”, la cui sovrapposizione al dipinto dimostra il legame tra il dipinto e la struttura architettonica che lo contiene ed in più l’esattezza della prospettiva usata per trasformare la scena da bidimensionale a tridimensionale.

Infatti utilizzando il wand il visitatore entra nella scena dell’ultima cena, che si trasforma in un ambiente 3D, può sedere a fianco degli apostoli e guardare il refettorio dal punto di vista del Cristo, può osservare da “dentro” i particolari di quest’opera la cui visione è normalmente legata ad una grande distanza.

Il visitatore entra nella scena del dipinto resa in 3D

Questo progetto, oltre a rispondere all’esigenza di un’osservazione più ravvicinata di opera che solitamente dista 6m dall’occhio del visitatore, vuole evidenziare la continuità della ricerca scientifico-matematica che è sottesa sia a grandi opere del passato, sia alle più recenti frontiere dell’arte quali la costruzione di ambienti virtuali tridimensionali.

4.3.2 Hisham Bizri e “Las Meninas”

Hisham Bizri è un artista visivo che si è dedicato sia alla produzione di film che alla creazione di ambienti virtuali tridimensionali all’Electronic Visualization Laboratory di Chicago (lo stesso in cui lavora Fischnaller).
Uno dei suoi progetti riguarda un percorso interattivo, da esperire all’interno di un cave, che permette al visitatore di entrare nel famoso dipinto di Diego Velasquez “Las Meninas”.

D. Velasquez, Las Meninas, 1656
Questa tela è caratterizzata da una serie